Hamish Fulton: en passant

Lo spirito dello Zen nell’arte contemporanea

Laurent Buffet

A partire dagli anni ‘50, periodo nel quale il buddhismo zen comincia a diffondersi in Occidente, un buon numero di artisti, che ben presto saranno chiamati “contemporanei” per distinguerli dagli artisti “moderni” delle generazioni precedenti, trovano in questa spiritualità una importante fonte di ispirazione. La rubrica “lo spirito dello Zen nell’arte contemporanea” propone, attraverso l’esempio di artisti di primo piano, di raccontare questa storia. Cominciamo questo mese con Hamish Fulton.

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Hamish Fulton : en passant

Il lavoro di Hamish Fulton consiste innanzitutto nelle marce che, dall’inizio degli anni ’70, l’artista compie per il mondo, quindi nelle opere che successivamente ne rendono testimonianza, secondo una formula ormai famosa: “No walk, no work”. A differenza di Richard Long, il quale, camminando anche nello spazio naturale, dà forma a linee e cerchi per mezzo di calpestii o ammucchiando delle pietre, le impronte di Fulton si confondono con quelle degli uomini e delle greggi che seguono i suoi stessi sentieri. In questo caso, l’assenza di visibilità delle tracce richiede, per rievocare le marce, un altro genere di mediazione, che fa in gran parte ricorso alle narrazioni.

I numerosi supporti e media presi a prestito dall’artista (libri, fotografie, testi, quadri, affreschi murali ecc.) hanno tutti lo scopo di raccontare degli itinerari, ma per mezzo di narrazioni che nascondono più di quanto non rivelino l’esperienza che designano: racconti “ciechi”, come si dice delle finestre o dei muri, che, tuttavia, non devono la loro opacità ad un eccesso di presenza, ma, al contrario, alla loro estrema concisione.

La maggior parte delle opere di Fulton comprende delle corte frasi, precedute da una intestazione, che indicano, secondo un ordine variabile: l’anno, il periodo, la durata, la lunghezza, il percorso, il luogo di una marcia. Una stessa intestazione può, a seconda dei casi, essere seguita da un testo diverso, come “THE PILGRIMS WAY” (LA VIA DEI PELLEGRINI) che, in una pubblicazione del 1975, è documentata da una succinta annotazione: “1971 / 10 DAYS IN APRIL- A 165 MILES WALK / ENGLAND” (1971 / 10 GIORNI IN APRILE – UNA MARCIA DI 165 MIGLIA); mentre una versione più dettagliata compare in una pubblicazione del 1990, nella quale il testo è questa volta stampato a lato di una fotografia: “1971 / A HOLLOW LANE ON THE NORTH DOWNS / ANCIENT PATHS FORMING A ROUTE BETWEEN WINCHESTER AND CANTERBURY / 10 DAYS IN APRIL A 165 MILES WALK“ (1971 / UNA STRADA VUOTA NELLE NORTH DOWNS / ANTICHE VIE FORMANO UN PERCORSO TRA WINCHESTER E CANTERBURY / MARCIA DI 165 MILES PER 10 GIORNI IN APRILE). Piuttosto che di “narrazioni” o anche di “micro-racconti”, forse dovremmo parlare di “schizzi narrativi” per evocare il carattere frammentario, lapidario e spesso allusivo di questi testi. Una evidente sproporzione regola il rapporto che regna tra il loro contenuto diegetico e l’estensione spaziale e temporale dell’azione – che implica una varietà di eventi altrettanto importante – che questo contenuto ha la funzione di rappresentare.

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Una tale sproporzione caratterizza anche le fotografie di Fulton, le quali non hanno lo scopo di raffigurare i paesaggi attraversati dall’artista, bensì, attraverso la rappresentazione dei paesaggi, l’esperienza del cammino. Per comprendere il particolare statuto di queste immagini la presenza del testo è necessaria: essa stabilisce dei riferimenti temporali che invitano a leggerle come momenti di un processo molto più lungo, in quanto le marce possono talvolta svolgersi per diverse settimane. Alcuni motivi mettono in evidenza in modo del tutto particolare questa funzione volutamente lacunosa dell’immagine. Ben presenti nel lavoro di Fulton, le strade, i sentieri e le piste, pur rappresentando evidenti simboli del cammino, si propongono altresì allo sguardo come segmenti di spazio indotti dal mezzo fotografico. In effetti, essendo impossibile rappresentare nella loro totalità le linee disegnate sul terreno dalle vie percorribili a piedi se non con una veduta aerea inaccessibile al viandante, la loro presenza nell’immagine è il segno manifesto della propria realtà frammentaria. In altre parole, nello stesso modo in cui la fotografia fissa l’istante di una durata, essa delimita una sezione di spazio di cui le vie accessibili a piedi rivelano con forza il carattere frammentario. L’artista ricorda così che l’esperienza del cammino va oltre l’ambito della rappresentazione – e, di conseguenza, che la sua opera rasenta l’invisibile.

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Accade a Fulton di annotare gli eventi che punteggiano i suoi cammini nello spazio naturale: il passaggio di una nube, il canto di un uccello, il gorgoglio di un ruscello, ecc. L’artista compone così delle rubriche sensibili che testimoniano del suo essere profondamente presente al mondo che lo circonda. Un tale utilizzo delle parole ricorda l’arte dell’Haiku, non solo a causa dello stile laconico che qui assume il ricorso al linguaggio, ma anche in ragione della natura dei fenomeni che queste parole designano, i quali sono tutti segnati dal sigillo dell’impermanenza. Nel considerare il lavoro di Fulton si pensa a Bashō, più ancora che al romanticismo inglese di un William Wordsworth.

Nello stesso modo in cui, relegato nel fuoricampo dell’immagine, il corpo dell’artista non appare in nessuna delle sue fotografie, il pronome personale “io” è assente dall’insieme dei suoi testi. Questa assenza è un modo per consacrare lo spazio naturale, rimandando altresì a certi principi buddhisti. Essa è un’espressione della vacuità del soggetto del cammino, che osserva l’apparizione e la scomparsa dei fenomeni naturali come l’espressione della medesima vacuità. “La cosa primordiale è il rapporto spirituale con la natura”, afferma Fulton. Secondo il pensiero buddhista, realizzare la vacuità è anche realizzare il legame di interdipendenza che regna tra tutti i fenomeni: privi di sostanza propria, gli esseri traggono la loro esistenza dalla loro reciproche interazioni. Camminando nella natura, l’artista diviene egli stesso un elemento tra gli elementi, un essere tra gli esseri naturali. Le opere di Fulton ricordano così la famosa massima del Sutra del Cuore: “Il vuoto è la forma e la forma è il vuoto”.

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Nella pratica di zazen, la vacuità si realizza attraverso un lavoro di concentrazione che porta al progressivo esaurimento dell’attività mentale. Il lavoro di Fulton rende testimonianza di questa esperienza meditativa. In un libro come Only art resulting from the expérience of individual walks, l’espressione “nessun pensiero” ritorna in maniera significativa in numerose occasioni; e questo a proposito di gesti quali: girare a piedi nudi intorno alla propria tenda, fare un certo numero di passi sulle rocce o sul cemento, ecc. L’artista in una intervista spiega: “Durante una marcia, si passa attraverso diversi stati dello spirito, e man mano mi rendo conto che ho la tendenza a sbarazzarmi del mio abituale eccesso di riflessione”.

Insomma, i racconti del viandante si rivelano altrettanto sfuggenti quanto le tracce dei suoi passi sul terreno: mentre queste sono destinate a sparire non appena apparse, quelli non hanno altro scopo che di rievocare la silenziosa comunione dell’uomo e della natura – racconti ciechi, in quanto rivolti verso la luce interiore di un’esperienza senza parole.

Traduzione di Mauro Peretti

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